CUCINA POVERA: DALLA STALLA AL RECUPERO DEGLI AVANZI

Torna spesso agli onori della cronaca la dizione “cucina povera” per indicare la cucina contadina, fatta di ingredienti semplici, genuini e sostenibili. I luoghi attorno alla casa del contadino, come la stalla, l’aia e il cortile mettevano a disposizione carne, uova e latte che rappresentavano la parte proteica dell’alimentazione. Scopriamo con i medici di Cibum dell’Azienda ospedaliero-universitaria Senese cos’è la cucina povera e come questa rappresenti ancora oggi una parte importante della nostra cultura e della nostra alimentazione

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Consulenza scientifica

Barbara Paolini

Medico dietologo e direttore dell’UO di Dietetica e Nutrizione Clinica presso l’Azienda ospedaliero-universitaria Senese. Professore all'Università di Siena. Presidente Nazionale Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI).

LA STALLA

La stalla accoglieva i buoi usati però per il lavoro nei campi. Sono rari piatti a base di manzo o maiale nella cucina povera tradizionale perché nei secoli scorsi queste erano carni riservate in gran parte ai signori.

I contadini non possedevano mucche e avevano un solo maiale che macellavano una volta l’anno, usandone ogni parte: la coscia diventava il prosciutto, il sangue un budino dolce, i peli le setole delle spazzole.

Le frattaglie usate per tante ricette: i crostini di milza, il cervelletto fritto. Da qui il detto “del maiale non si butta via nulla.”

E ricordiamo anche la trippa in umido o il lampredotto, la parte più bassa dello stomaco della mucca, comprende una parte magra, chiamata gala, e una parte grassa, chiamata spannocchia. La lingua di vitello in dolceforte.

Quanto alla ben nota Bistecca alla Fiorentina, ci dispiace sfatare un mito ma questa fece la sua comparsa assai tardi nelle tavole dei toscani, anche a causa della scarsa conservabilità degli ingredienti, che imponeva preparazioni dalle cotture più lunghe e sicure dal punto di vista alimentare.

Gli ovini erano usati per lo più per il latte e la produzione di formaggi per lo più il pecorino o la ricotta che rappresentavano l’unica variante ad una dieta poverissima, ma che assai spesso erano usati come “merce di scambio” con altri alimenti.

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IL CORTILE

Prevalentemente i contadini mangiavano carni di pollo, coniglio, tacchini, oche. Questi venivano consumati la domenica o nei giorni di festa.

Come il ragù di carne di cui la toscana vanta una lunga tradizione: quasi un rito di famiglia. Non ci voleva fretta, occorreva l’intero pomeriggio, perché l’inserimento dei vari ingredienti andava fatta al momento giusto e vegliarlo, per non farlo attaccare, era doveroso.

GLI AVANZI

La carne, in particolare gli avanzi, le interiora e le parti meno nobili dell’animale, venivano in larga parte usati per stufati, brodi e bolliti. Il bollito stesso poi era considerato un lusso, consumato quasi esclusivamente nei giorni di festa, e quello avanzato veniva rifatto il giorno dopo con le cipolle. Ma ricordiamo la zuppa del carcerato o il cibreo, un sugo fatto con i fegatini e la cipolla. Così come ancora oggi sono presenti sulle nostre tavole i fegatelli di maiale conservati nello strutto.

Era assai diffuso anche l’acquisto degli avanzi della lavorazione della carne, un insieme chiamato dalle massaie toscane malacarne“. Solo in tempi recenti si diffusero largamente i salumi.

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LE UOVA

Dal cortile arrivavano anche le uova usate per preparare la pasta o frittate (con le cipolle o il rigatino). Impiegate anche per idolci nei giorni di festa: il berlingozzo, i cenci, la stiacciata con l’uva.

Tutti dolci semplici con ingredienti poveri che la natura forniva come la frutta secca: noci e mandorli che facevano ombra alle case con i loro frutti con i quali si impastavano cavallucci e pan co’ santi.

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PREPARAZIONE DEI CIBI

Il rituale preparatorio dei cibi richiedeva una lunga liturgia che si svolgeva per ore. L’apprendimento dell’arte di far cucina richiedeva anni di pratica e di osservazione.

Ricettari praticamente non ne esistevano, né del resto le massaie se li potevano permettere o avrebbero saputo leggerli.

Non era però necessario imparare a leggere per poter cucinare e la preparazione dei cibi era appresa “provando e riprovando”, col fare e mandando a memoria la successione degli ingredienti e l’immagine mentale dell’intero processo di trasformazione.

È perciò che tutto veniva fatto ad occhio e per la natura stessa dell’apprendimento le cuoche, ammesso pure che lo volessero, non potevano materialmente condividere i loro segreti culinari con facilità.

Dialogo della descrizione di una ricetta:

Scalda la padella co’ un pochinin d’olio….poi fa un battuto con l’odori.

Quali odori ci metto?

Mah, quelli che trova…..quelli in istagione…tutti ce li mette. E poi uno spicchio d’aglio a rosolire….

Quanto lo lascio a “rosolire”?

Finchè prende il su’ colore, poi lo leva eh!

Che colore?

Il suo dorato….giusto insomma. Poi tanto lo vede….poi si mette il pomodoro.

Quanto pomodoro?

Secondo quanta roba vuol fare

Per esempio, quanto a persona?

Mah, lo vede da se, a occhio. Da coprire il mezzo della padella.

Il sale non ci va?

Diamine, quando ci ha messo l’odori. Poi aspetta che gli cuocia il pomodoro…

Fino a quando?

Finchè gli ha preso il colore. Poi tanto quand’è pronto lo vede.

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